4 LETTERE

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gioiaedolore
00sabato 19 aprile 2008 21:26


Racconto - Claudia Martore

Quattro lettere

Temevo di addormentarmi e fare ancora quel sogno.

Guidavo, coi miei amici accanto e all’improvviso preso dal panico pigiavo più forte l’accelleratore, proprio contro un palo enorme. La testa sbatteva prima avanti e poi nel silenzio, dopo una leggera sensazione di pressione sulle tempie. Era quello? È quello che si sente quando si muore?



Quella mattina mi svegliai in una pozza di sudore.



Non era la prima volta che accadeva, quel sogno, le tempie, il silenzio.



Mi sollevai con una enorme fatica, allungai la mano (giorno dopo giorno sempre più esile) e trascinai verso di me la carrozzella. Da solo. Sempre da solo avevo fatto, io. E anche in questa situazione di merda, non avevo bisogno di nessuno. Tantomeno di una di quelle infermiere rompipalle che la mattina ostentano un sorriso per farti credere che sia una bellissima giornata. Per loro forse, ma non per te: inchiodato a un letto d’ospedale a fissare Rai1 Rai2 Rai3 mentre l’elettrocadiogramma del vicino tintinna nervosamente e la puzza di minestra (ma che minestra! Sbobba!) risale le scale.



Un po’ di forza sulle braccia e trascinai il culo sulla sedia a rotelle gentilmente data in dotazione dall’ospedale. Niente. Niente sarebbe mai tornato come prima.



Una spintarella e via. I dottori si incazzavano non poco quando prendevo di queste iniziative.



Ma io ero un campione; quando entravo in campo e a 360 gradi mostravo allo stadio come si dominava un pallone. La folla in delirio. E non erano certo due dottori a dover dire a me che cosa non dovessi fare. Ero un campione! Ero.



Quando la notizia esce sui giornali i fan ti riempiono la stanza di fiori e bigliettini d’amore, poi solo più il comò e infine, accanto, ti rimane solo più la sbobba e una signora che fa le pulizie.



Il corridoio era vuoto, come sempre a quell’ora.



Dietro ogni porta si nascondeva un altro malato. Ognuno coi suoi fardelli si trascinava in quello schifo di posto sperando di campare ancora fino a Natale, e che qualche cane di parente gli venisse a fare visita raccontando che gli impegni proprio sotto Natale… e il lavoro… i figli che vanno male a scuola…



I freni sulle ruote di gomma cigolavano dolcemente, proprio come quella sera.



C’era qualcuno nella sala/salotto gentilmente data in dotazione dall’ospedale a noi poveri ammalati che non sapevamo proprio più come spendere il nostro tempo.



Una vecchia sbrodolava con la testa all’indietro e le dita sul telecomando. Una telenovela. Volti noti.



Una volta c’erano feste nei locali più in di Milano, alcool, la testa che gira e risalire in macchina verso un’altra festa.



Poi una notte, proprio quel lampione.



A quanto pareva non mi rimaneva granché da fare. Il tempo non era più molto. La pressione sulle tempie si faceva sempre più forte.



Quattro lettere che non dimenticherò mai.



Quattro lettere che dopo una decina di anni sono tornate a riscuotere.



Quattro lettere subdole.



Quattro lettere per cento euro in più.



Quattro lettere per quattro minuti di gloria, mentre lei sbatteva le cosce contro il cofano, piagnucolando in africano o quale che fosse la sua cazzo di lingua.



AIDS; Uno scherzo che quella puttana proprio non doveva farmi.


END


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